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Lo “stupa”, monumento del buddhismo

Secondo le fonti il Buddha, in punto di morte, dà istruzioni su come cremare il proprio corpo e deporne i resti in un tumulo, seguendo l’usanza riservata agli eroi e ai personaggi importanti. Quando muore, ovvero entra nel parinirvana, gli otto re delle regioni circostanti si disputano il possesso delle sue ceneri, e infine le spartiscono: un modo per ribadire, tra l’altro, la sovranità spirituale del Buddha sul mondo intero, simboleggiato appunto dagli otto punti cardinali – i quattro principali e gli intermedi. Ciascuno di questi otto re fa erigere sulla propria parte di reliquie uno di questi tumuli; uno viene innalzato anche per custodirvi il recipiente che aveva ospitato le sacre ceneri, e un altro, sul luogo della cremazione, per deporvi i tizzoni del rogo funebre. In seguito, le reliquie subiscono alcune traversie; finché, narra l’agiografia buddhista, l’imperatore Ashoka (269-232 a.C.), per glorificare il Buddha, le recupera e le distribuisce addirittura in ottantaquattromila nuovi monumenti commemorativi, sparsi per l’immenso territorio del suo dominio, e alla cui costruzione collaborano anche esseri celesti.

La figura al centro potrebbe essere Ashoka

In queste vicende leggendarie i testi adombrano la storia dei primi stupra buddhisti; ed è plausibile ritenere che al III secolo a.C. risalga in effetti il nucleo degli antichi stupa di Bharhut, Sanchi e Amaravati. La tradizione buddhista vuole che Ashoka abbia per primo inviato monaci a operare proselitismo anche oltre i confini del suo impero; fra questi, il figlio Mahinda, che si sarebbe recato in Sri Lanka.

Il nome

La parola sanscrita stupa (thupa in pali, la lingua del Canone buddhista) significa di base qualcosa come “cresta”, “sommità”. Un altro termine con cui viene volentieri designata nell’India antica questa costruzione è chaitya, da una radice verbale che significa “impilare”; il nome è riflesso dalla parola thailandese chedi. Un’altra denominazione sancrita ancora è dhatugarbha “ricettacolo per le reliquie”, con cui si apparenta il corrente nome singalese di dagaba. In tibetano il nome comune è chorten, “depositario di offerte”. Le narrazioni mostrano in modo inequivocabile che si tratta primariamente di una struttura funeraria, costruita per conservare reliquie e consentire la memoria e l’omaggio. Tuttavia, le forme assunte da questo monumento fin dai primi esempi conservati si lasciano interpretare in modo assai più complesso. La struttura essenziale degli antichi stupa, e dello stupa in generale, si compine infatti di una serie di parti ben definite, ognuna carica di significati metafisici, e il cui insieme si configura come un’immagine dell’universo.

La struttura dello stupa

La pianta è leggibile come un mandala (alla lettera “cerchio”), cioè come un diagramma sacro, un tipo di disegno che il buddhismo elaborerà a lungo facendone uno strumento per la meditazione, e che si spiega anch’esso, di base, come un’immagine ideale del cosmo. Ed ecco che lo stupa, immagine dell’universo, si configura come identico alla natura stessa della buddhità: è il “corpo” dell’Illuminato. Infine, poiché il Buddha è indistinguibile dalla sua Legge, dal suo dharma, ecco che lo stupa rappresenta anche la materializzazione del dharma buddhista.

Dal basso verso l’alto, lo stupa dell’India antica è costituito dal un basamento (medhi), inizialmente di forma circolare, ma che diventerà, a pianta quadrata, e che rappresenta la terra. Sopra di questo si innalza una grande calotta (anda, “uovo”), simbolo della volta celeste; nei primi esempi è di forma semisferica, ma tenderà ad allungarsi verso l’alto ed è forse questa, negli sviluppi dello stupa fuori dall’India, la parte che finirà per mostrare la maggiore variazione nelle linee. Questa calotta è una struttura chiusa, inaccessibile, al cui interno vi è l’urna sepolta con le reliquie, che possono essere le ceneri ritenute del Buddha o di monaci famosi, un oggetto monastico, un manoscritto, e così via. Reliquie che non sono da contemplare come nella tradizione cristiana, ma che, piuttosto, sono concepite come il sacro germe segreto da cui si irradia la grazia ed il mondo stesso.

La calotta è attraversata da un palo (yashti), che fuoriesce dall’alto: è questa la riproduzione dell’asse cosmico, del “puntello” dell’universo, che al centro del mondo tiene separato il cielo dalla terra. Nella genesi dello stupa è stata anche attribuita una grande importanza alla yashti come monumento a sé; in essa è stato scorto, fra l’altro, un legame con l’antico palo sacrificale vedico (yupa). In cima, attorno al palo, si trova la cosiddetta harmika (“piccolo padiglione”), che negli stupa più antichi si presenta come una piccola cancellata quadrangolare, replicante sacelli scomparsi che racchiudevano uno spazio nel quale, si trovava un albero, antica sede degli spiriti e, replica dell’albero sotto il quale il Buddha raggiunse l’illuminazione.

Un altro elemento importante degli antichi stupa indiani è la cancellata di pietra che li circonda, chiamata vedika, sulla quale si aprono portali monumentali (torana).

Conclusione

Un monumento, dunque, dalla lettura complessa, stratificata, che fa leva su diversi livelli di consapevolezza da parte del fedele. Nel culto, lo stupa è meta di devozione e pellegrinaggio, ed è luogo di insegnamento, perché i suoi rilievi scolpiti e le sue sculture trasmettono la conoscenza della dottrina. La forma di devozione riservata allo stupa è la circumambulazione: il fedele cammina introno allo stupa in senso orario, porgendo la destra al monumento.

I siti in cui gli stupa giganteggiavano erano in genere ampi centri monastici che comprendevano residenze per i monaci e templi, ma le forme di questi edifici si possono al massimo ricostruire. La collocazione di questi centri buddhisti, come di quelli scavati nella roccia, ha fra l’altro aiutato a comprendere il percorso delle principali vie di comunicazione di cui si serviva il commercio dell’India coeva: si travavano infatti in punti cruciali di queste arterie, e per il loro mantenimento beneficavano del flusso di ricchezze.

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